Scuola Don Comelli Vigevano | La lezione di Betocchi e Asimov ai tempi del coronavirus - Il sussidiario
Molte scuole, chiuse per il coronavirus, stanno facendo didattica a distanza. Ma niente può sostituire la vicinanza stringente della lezione in classe.
Scuola Don Comelli Vigevano, infanzia, primaria e secondaria
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La lezione di Betocchi e Asimov ai tempi del coronavirus – Il sussidiario

La lezione di Betocchi e Asimov ai tempi del coronavirus – Il sussidiario

Mercoledì sera un nuovo Decreto del presidente del Consiglio (Dpcm del 4 marzo 2020) volto a contrastare e contenere il diffondersi del Covid-19 ha prorogato la sospensione delle attività didattiche nelle scuole fino al 15 marzo, dopo che il precedente decreto del 1° marzo aveva già allungato di una settimana l’assenza degli alunni dalle aule.

Già nello scorso weekend queste disposizioni hanno messo tutti di fronte ad una situazione nuova, che chiama ciascuno a considerare con serietà il pezzo di realtà che ha di fronte. Insieme alla responsabilità che questo momento chiede di vivere, i pensieri di molti docenti e dirigenti si sono da subito rivolti agli alunni delle proprie scuole, senza cui le aule dei loro edifici risultano così silenziose e vuote.

Molte scuole (interi collegi docenti o singoli insegnanti) stanno sperimentando modalità di didattica a distanza, attraverso piattaforme online, condividendo materiali con i propri studenti: presentazioni, filmati, esercizi interattivi. Lo stesso Miur, insieme agli Uffici scolastici regionali e provinciali, sta predisponendo e attivando misure di supporto alle scuole per questo momento di sospensione delle attività. Il Dpcm lo prevede: all’art. 4 (comma 1, lettera d) dichiara la possibilità per i dirigenti scolastici nelle cui scuole è stata sospesa l’attività didattica per l’emergenza sanitaria, di attivare, “sentito il Collegio dei Docenti, per la durata della sospensione, modalità di didattica a distanza anche riguardo alle specifiche esigenze degli studenti con disabilità”.

Nei giorni scorsi sono state pubblicate sul sito del Miur due call rivolte ai soggetti che volessero mettere a disposizione soluzioni tecnologiche (hardware e software) per le scuole. È diventato famoso, grazie al pubblico ringraziamento della stessa ministra Azzolina, il caso dell’asilo di Biella in cui le maestre hanno deciso di trasmettere in diretta Facebook per i propri alunni due fiabe al giorno, una al mattino e una al pomeriggio; o l’esperimento, reso sempre noto dai canali social della ministra, del Comprensivo di Melzo che sta effettuando attività di didattica online anche con i bambini della primaria.

Non sono casi isolati nel mondo scolastico, questi. Conosco diversi docenti, presidi, maestre che stanno mettendo a frutto tutta la loro creatività e fantasia per dire ai ragazzi e ai bambini più piccoli che non sono soli, che la scuola è con loro anche in questo momento.

Non finiranno sui giornali, ma dalla loro opera silenziosa dipende il “bene crescente del mondo”, come recita il brano del romanzo di George Elliot da cui Malick ha tratto il titolo del suo ultimo film (A hidden life).

Credo davvero che questo fervore nascosto sia il segno importante di un’Italia che non si arrende, di un popolo che (come in tanti periodi della sua storia) fa fronte come può alle emergenze e alle difficoltà, usando tutti gli strumenti che ha a disposizione e inventandosi tutte le soluzioni possibili, cercando strade nuove per non arrendersi e andare avanti. Credo sia un segno importante, questo fervore nascosto, anche della presenza di chi crede profondamente nella scuola e la serve ogni giorno come una possibilità grande di far diventare uomo un uomo, capace di star davanti senza paura anche ai momenti più bui perché ha incontrato, sulla sua strada, adulti capaci di prenderlo per mano quando ne ha avuto bisogno.

Ritornano alla mia mente alcuni versi di Carlo Betocchi di fronte ad un popolo che, dopo la devastante piena dell’Arno a Firenze del 1966, tira fuori “pale e scope e rastrelli” e si mette paziente a ricostruire (C. Betocchi, Nei giorni della piena). È vero: insieme agli esempi virtuosi che ho raccontato, abbiamo potuto assistere anche a tanti episodi di fragilità personali o collettive, situazioni che interrogano innanzitutto noi stessi e le nostre ragioni. Ancora di più, in questi giorni un po’ strani si gioca per ciascuno la partita importante della libertà, chiamata a scegliere che cosa guardare e cosa preferire, cosa fare oggetto della propria attenzione, a cosa aggrapparsi per non naufragare nel mare delle opinioni.

Ho mandato anch’io qualcosa ai miei alunni, attraverso la piattaforma didattica che è in uso nella mia scuola. Ho fatto quindi, come tanti, “didattica a distanza”, dando qualche indicazione, qualche esercizio, qualcosa da ripassare. Qualche alunno mi ha ringraziato. Non sono sicura, però, di aver raggiunto tutti, e inoltre questa esperienza apre in me diverse domande e riflessioni.

Se la didattica a distanza è uno strumento utile in questa situazione che – come ha detto il ministro Azzolina ai bambini dell’IC di Melzo – “passerà”, non sono sicura che questa modalità sia il futuro della didattica stessa. Oltre ai problemi tecnici che pone, ci sono questioni più sostanziali legate alla natura profonda dell’insegnamento. Su cosa sia, e come avvenga, l’insegnamento.

Ci sono innanzitutto problemi relativi alle dotazioni delle scuole: il Piano nazionale della scuola digitale (Pnsd) ha promosso azioni volte all’incremento di pc, tablet, Lim e schermi interattivi, e in questi anni le scuole statali si sono attrezzate per dotarsi il più possibile di dispositivi e di creare (grazie anche ai Pon, ai fondi di amministrazioni comunali e di privati) ambienti per la didattica integrata e innovativa. Tuttavia, a differenza delle secondarie di secondo grado, negli istituti comprensivi del primo ciclo non c’è la presenza di personale tecnico con competenze specifiche; la messa in opera, la manutenzione dei dispositivi, l’illustrazione al personale del loro utilizzo è nel migliore dei casi affidato agli animatori digitali o alle funzioni strumentali, che molto spesso non hanno nel proprio curricolo una formazione informatica; è gente, in genere, che si spende con grande passione e volontà, ma spesso non ha le forze né le competenze per raggiungere e governare tutto. Lo stesso accade per le piattaforme didattiche e i siti istituzionali: seguirli, sistemarli, gestirli è un lavoro oneroso che chiede molto tempo e pazienza da parte dei docenti che ne sono responsabili.

La didattica a distanza deve poi fare i conti con le reali possibilità delle famiglie: non tutte, infatti, possiedono dispositivi elettronici o hanno la disponibilità di un collegamento ad internet. Le situazioni di svantaggio socio-economico sono presenti (e spesso numericamente significative) in taluni contesti. Bisogna dunque trovare il modo di affrontare questo problema perché la scuola sia veramente inclusiva per tutti.

Ci sono poi le competenze digitali dei docenti, che talvolta faticano a stare al passo dei cambiamenti tecnologici. Molti docenti infatti (e non è loro colpa) provengono da una scuola in cui la rivoluzione digitale non era ancora arrivata, e manca in loro la familiarità con strumenti anche molto semplici di comunicazione o software ormai piuttosto diffusi. Il Pnsd ha voluto affrontare anche questo, promuovendo azioni di formazione e istituendo un animatore digitale in ogni scuola che possa essere di supporto ai colleghi, ma credo che i risultati di questo programma si vedranno nel lungo periodo. 

C’è infine il discorso sull’educazione alluso consapevole dei dispositivi da parte degli alunni, aspetto anche questo previsto dal Pnsd e rafforzato con l’introduzione, in ogni scuola, di un referente per il cyberbullismo, ma credo che sia esperienza di tanti docenti quella di scontrarsi con la difficoltà (per altri aspetti legata all’importante questione dell’educazione alla legalità) del far percepire agli alunni i dispositivi tecnologici come strumenti di lavoro reali, trovando modalità che, introducendoli gradualmente nella didattica, li portino a considerarli tali e come tali ad utilizzarli. 

A tutti questi problemi, col tempo e con le dovute misure e investimenti, si può far fronte. Ci sono però, dicevo, questioni più sostanziali, e che l’assenza di questi giorni ha riportato con evidenza ai miei occhi.

La didattica a distanza è uno strumento valido, se però integrato in una didattica in presenza. Diverso è per me usare gli strumenti informatici da soli (come in questi giorni) o come supporto al mio quotidiano lavoro in classe, quando carico sulla piattaforma video e presentazioni che ho già introdotto agli alunni e su cui con loro ho lavorato al mattino. Certamente è utile ed è un’occasione l’utilizzo delle tecnologie e della comunicazione a distanza in questo momento in cui non è possibile fare altro, ma l’e-learning da solo può essere una forma d’apprendimento adulto, di chi cioè ha già un metodo di studio consolidato e autonomo. Questi giorni mi stanno restituendo l’importanza di quei momenti in cui, con pazienza, si riprende la lezione, si legge insieme il manuale con gli studenti della secondaria di primo grado, si distinguono le informazioni più importanti da quelle accessorie, si ragiona sulle parole, ci si interroga su quello che si legge e si impara; di tutti quei momenti, insomma, in cui l’insegnante trasmette come per osmosi un metodo di studio e di lavoro.

Mi manca, in questi giorni, il contatto visivo con i miei studenti; mi mancano le lezioni partecipate; quelle in cui il sapere è costruito e scoperto insieme; quelle in cui ogni tanto ti fermi, fai ripetere, poni domande; quelle in cui l’intervento di uno diventa strada per tutti; mi manca il feedback dei volti annoiati o entusiasti, perplessi o dubbiosi, quei volti che dettano il passo al percorso che ho in testa e danno un contributo importante alla crescita della mia professionalità, che matura nell’impegno costante a raggiungere tutti, trovando la strada giusta per ognuno, cosa che non di rado costringe a cambiare il ritmo o la direzione del cammino che avevi previsto.

Mi mancano le distrazioni, le dimenticanze, i compiti consegnati in ritardo e quelli consegnati in tempo (perché è anche da qui che passa l’educazione), le battute che fanno divertire, gli esercizi insieme, gli intervalli, i racconti dei ragazzi, la vivacità insomma che anima la scuola. Mi mancano i rapporti con i miei colleghi, dentro i quali nascono idee, dentro i quali è possibile quel confronto che genera la capacità di essere insieme per educare.

Leggendo il libro Baciami senza rete di Paolo Crepet trovai tempo fa una citazione di Steve Jobs, che mi sembra illustri bene qualcosa di quello che voglio dire e risuona nei commenti di tanti amici che affermano che riunirsi e parlarsi non è la stessa cosa di scambiarsi documenti via mail: “C’è una tendenza nella nostra età della rete a pensare che le idee possano essere sviluppate attraverso una mail o una chat. È una follia! La creatività nasce da incontri spontanei, da discussioni casuali. Tu incontri qualcuno, chiedi cosa sta facendo, e dici ‘wow’. E immediatamente stai cucinando una nuova idea”. 

Era il lontano 1951, e lo scrittore Isaac Asimov pubblicava un racconto che in questi giorni descrive ciò che c’è nel mio cuore di insegnante. Due ragazzi di 11 e 13 anni, Margie e Tommy, trovano in solaio un libro antichissimo. Siamo nel 2157, e le pagine gialle e fruscianti di quell’oggetto di antiquariato li fanno sorridere. Il fatto è per loro così sorprendente che Margie lo appunta persino nel suo diario: “Oggi Tommy ha trovato un vero libro!”. È buffo, dicono, leggere parole che se ne stanno ferme e non si muovono sullo schermo: se torni indietro sono sempre le stesse, e cosa si può fare, una volta terminata la lettura, se non buttare via quell’oggetto che ha perso ogni sua utilità? È un libro per giunta che parla di scuola, quello che hanno trovato, e le domande curiose della ragazzina portano il dialogo tra i due sulla scuola di un tempo: c’è stata un’epoca, racconta Tommy (che sembra saperne di più), in cui i maestri erano persone in carne ed ossa, e in cui i compiti non si infilavano nella fessura dell’insegnante meccanico; c’era un edificio speciale, per imparare, e tutti andavano là; non c’era un docente-robot nelle case di ogni bambino, e non c’erano classi come stanze asettiche accanto alla propria cameretta. È assorta in questi pensieri, Margie, e non riesce a seguire le tanto odiate lezioni del suo insegnante meccanico:

“Stava pensando alle vecchie scuole che c’erano quando il nonno di suo nonno era bambino. Ci andavano i ragazzi di tutto il vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme alla fine della giornata. Imparavano le stesse cose, così potevano darsi una mano a fare i compiti e parlare di quello che avevano da studiare. E i maestri erano persone… L’insegnante meccanico faceva lampeggiare sullo schermo […] Margie stava pensando ai bambini di quei tempi, e a come dovevano amare la scuola. Chissà, stava pensando, come si divertivano!” (I. Asimov, Chissà come si divertivano). 

Sono giorni importanti per me, questi, perché mi ridicono che cosa è la scuola e quanta vita c’è nella vicinanza stringente delle ore di lezione, che sono un luogo speciale in cui gli insegnanti trasmettono con la propria persona la passione per la conoscenza della realtà; sono un luogo in cui gli insegnanti, con la propria persona, comunicano il senso e il motivo per cui vale la pena far la fatica di studiare; in cui trasmettono, insomma, le ragioni incarnate in una esperienza di vita e possono donare a chi gli è stato affidato uno sguardo di stima che può rilanciare.